Challenge mortali per adolescenti: un viaggio nel tunnel degli orrori.

Negli ultimi anni sembra che il web e i social siano i primi responsabili dell’istigazione al suicidio. Dietro numerosi profili si nascondono challenge mortali che portano gli adolescenti all’interno di un tunnel da cui, talvolta, è difficile uscirne.
Abbiamo sentito parlare più volte di questi “giochi”. La prima volta nel 2016, con la famosa Blue Whale, la Challenge nata in Russia, ora è la volta di Jonathan Galindo, il “Pippo umano”. Detto così fa addirittura sorridere, ma da ridere non c’è nulla, perchè significa che sensibilizzare, forse, non è bastato. Il pericolo sui social sembra esser aumentato e riesca a prendere il controllo della mente di molti ragazzini.

Inoltre, il lockdown appena passato ha portato i ragazzi ad un isolamento forzato per lunghi mesi, contribuendo al loro utilizzo più frequente di internet. La noia, il mancato contatto fisico con i coetanei, ha aumentato in maniera esponenziale il pericolo di essere attratti dalla frequentazione di siti e social.

Il lockdown, il web e i bambini

L’hastag #iorestoacasa è stata un’arma a doppio taglio e anche se necessaria, ha creato un nuovo modo, o meglio, ha consolidato un nuovo modo dell’uso di internet, introducendo in ogni famiglia un computer proprio perchè i ragazzi sono stati obbligati a seguire le lezioni on line. Questo ha abbassato notevolmente la soglia di età dei ragazzi che usano il web, portando in questo mondo anche bambini piccoli, al di sotto della fascia adolescenziale.

I genitori, non tutti, ma sono molti, non pensano che proprio i loro figli possano essere esposti a trappole mortali sul web. Una realtà che è un dato di fatto e non solo un’ipotesi.

Se pensiamo poi al fatto che molti genitori, purtroppo, sono stati assorbiti dalle conseguenze economiche del periodo di chiusura, e che questo ha inevitabilmente spostato la loro attenzione da un controllo costante e assiduo delle attività on line dei figli, si può capire come i ragazzi siano seriamente dei facili bersagli.

Le sfide del Web

Ultimamente, dopo il fenomeno della Blue Whale Challenge, si è tornati a parlare delle sfide presenti sul Web, i giochi della morte che hanno la capacità di portare al suicidio. Notizie che, all’interno della cronaca, si sono classificate quasi al primo posto. Ma dove sta l’errore di tutta questa vicenda?

A risollevare l’attenzione sull’argomento sono state Le Iene di Mediaset, da tempo impegnati attivamente in questa battaglia.

In tutto questo tempo, solo due scuole su cento hanno affrontato il grave e macabro problema. Molte di queste hanno affermato che parlarne, senza che all’interno della scuola si sia verificato un suicidio causato da queste challenge, sia inutile. E a questo punto allora meglio tacere, e sapete perchè?
Perchè parlare di suicidio, nel 2020, sembra essere ancora un tabù. In realtà parlare significa prevenire. Anche perchè i ragazzi entrano in contatto con queste sfide mortali molto prima che ne parlino i media. Il silenzio diventa quindi complice dell’istigazione al suicidio. Informare i ragazzi sulle conseguenze di questi macabri giochi è il modo più efficace per fare prevenzione.

Purtroppo sono troppi gli adulti che pensano si tratti di fake news, sottovalutando un malessere che per molti genitori è impensabile riconoscere nei propri figli. Ma soprattutto è pericoloso pensare che sia un fenomeno che non appartiene alla nostra cultura, perchè serpeggia tra i nostri adolescenti e non ha controllo.

“Quando si parla di suicidio, soprattutto in età evolutiva, si ricerca una sorta di sensazionalismo per fare uno show mediatico perchè è una notizia che attira l’attenzione del pubblico”, ha affermato Maura Manca, psicoterapeuta e presidente dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza Onlus e direttore responsabile della rivista scientifica online AdoleScienza.it.

“Vuoi giocare con me?”

Inizia così questo viaggio all’interno del tunnel degli orrori che non ha proprio le sembianze di una delle challenge mortali.

Mittente: Jonathan Galindo.

Un uomo dall’identità sconosciuta noto per essere definito il “Pippo umano”, il famoso cane del cartone animato della Disney. Un individuo alquanto strano che tramite i social attira a sè bambini e ragazzi per proporre pericolose prove di coraggio, fino ad arrivare all’autolesionismo e al suicidio.
Proprio come il gesto estremo compiuto a Napoli da un ragazzino di undici anni.

“Ho paura dell’uomo nero”. Sono queste le ultime parole che ha lasciato il ragazzo prima di morire per colpa del Pippo umano.

Vere e proprie tragedie che aumentano ogni giorno sempre di più. Vite spezzate da mancanza di dialogo e coraggio nell’affrontare un discorso delicato come questo.
Bisognerebbe ricordarsi che non è il silenzio a far sì che queste challenge mortali smettano di esistere.

Arianna Pino
Arianna Pino
Autrice del libro “Resta almeno il tempo di un tramonto” e di “Quando fuori piove”, finalista al concorso letterario “Il Tiburtino”. Iscritta all’ Università delle scienze e tecnologia del farmaco. Dice di sé:“Sono nata in città ma vivo col mare dentro. Ho occhi  grandi per guardare il mondo, ogni giorno, con colori diversi. Ho la testa tra le nuvole ma cammino su strade fatte di sogni pronti a sbocciare, mi piace stupire come il sole, quello che la mattina ti accarezza il volto e ti fa ricordare che c’è sempre un buon motivo per alzarsi. Amo la pizza, il gelato e la cioccolata calda perché io vivo così, di sensazioni estreme, perché a vent’anni una cosa o gela o brucia. Mi piace vivere tra le parole che scrivo, che danno forma alla mia vita come i bambini fanno con le nuvole”.