Cosa resterà degli anni ’80: new wave e non soul

“Cosa resterà degli anni ’80: non è solo il titolo di una canzone”. Ne abbiamo parlato in diverse occasioni, e sotto diversi punti di vista. La “British Invasion”, il “Power rock” rigorosamente Made in USA, il fenomeno della Italo disco. E ancora, il post-punk, che diventerà new wave, poi il new romantic: la Londra di quel periodo.

Una vera e propria rivoluzione musicale e culturale che prese forma intorno al Blitz, il club underground londinese di Covent Garden il quale, per creatività, si rivelerà essere il corrispettivo inglese dello Studio 54 di New York.

In un precedente articolo, avevo approfondito il discorso riguardante tutto quanto fosse di origine anglosassone, appunto la “British Invasion”. “Quasi” tutto quanto, mi vien da dire. Manca qualcosa: tutto quanto fosse ugualmente invasione britannica o new wave, ma senza esserlo.

New Gold Dream

Nei primi anni ’80, dove imperversa la finta rivalità tra i Duran Duran e gli Spandau Ballet (Simon Le Bon e Tony Hadley sono invece ottimi compagni di merende e di bevute), c’è una band scozzese che fa da terzo incomodo. Si tratta dei Simple Minds, la band capitanata da Jim Kerr (voce) e Charlie Burchill (chitarra), che riesce come nessun altro a fondere pop, rock, new wave e synth pop.

Una miscela unica ed originale, caratterizzata dalla chitarra di Charlie e dalla timbrica inconfondibile dalla voce di Jim, carismatico front man.

La loro carriera è un crescendo pazzesco fin dalla fine degli anni ‘70: da “Empire and dance” a “New gold dream”, passando per “Sparkle in the rain”, tra entusiasmanti esibizioni live ed impegno politico.

Poi, la consacrazione definitiva con l’album “Once upon a time” che, quando facevo radio, usavo definire “mondiale”. La conferma arriva con l’LP seguente “Street fighting years” del 1989, che contiene tre perle come “Mandela day”, “Belfast child” (dedicata al periodo più buio del regno della fu Regina Elisabetta II), e “Biko”, cover dell’iconico brano di Peter Gabriel.

La band è stata “alive and kicking” per tutti gli anni ’80: sessanta milioni di dischi venduti, poi, come purtroppo spesso accade, il lento declino.

A new flame

Sotto il comando, anzi, sotto la dittatura di uno studente d’arte di Manchester, anticipato di alcuni mesi dal singolo “Money’s too tight (to mention)”, vede la luce nl 1985 l’album di debutto dei Simply Red “Picture book”. Un mix di trascinanti melodie che uniscono pop, funk, rythm’n’blues: in una parola, anzi due, “soul bianco”.

L’album riscuote un successo strepitoso, nonostante vada in controtendenza rispetto alle atmosfere tipicamente new wave e new romantic del periodo, grazie soprattutto al carisma ed alla voce unica ed inimitabile del fondatore, Mick Hucknall.

Una carriera in continua crescita, con una linea musicale sempre fedele a sé stessa (nonostante i continui cambi di formazione), che non si è mai fermata nel corso dei trentacinque anni di vita del combo.

Album come “A new flame”, “Stars”, “Blue”, sono pietre miliari della storia della musica, fino a “Blue Eyed Soul”, pubblicato nel 2019. Un album che, in un panorama musicale come quello attuale dominato da musica di merda, saturo di rap, trap, dubstep, elettronica e reggaeton, rappresenta, ancora una volta, una ventata di aria pulita. Una brezza che scompiglia i capelli tenuti dal gel, nonostante gli anni che passano. E che va sempre di moda.

Popped In Souled Out

A proposito di mode, c’è stato un momento nel corso del mitico decennio, dove l’elettronica, i sintetizzatori e la new wave, vennero messi da parte, a beneficio di atmosfere molto più “smooth”, a base di funk, jazz, con una punta di soul bianco.

Tre band ben precise rappresentano questa tendenza che all’epoca venne premiata non tanto a livello di vendite, quanto a suon di passaggi radiofonici.

I Level 42 rappresentano la band più iconica in questo senso. Capitanati da Mark King, uno dei bassisti più innovativi della storia dello strumento a quattro corde, hanno caratterizzato la seconda metà degli anni ’80 con un jazz funk colorato di rock e con performance live semplicemente entusiasmanti.

Matt Bianco (ricordo a tutti che si tratta di una band), sono da annoverare tra coloro che hanno proposto al grande pubblico uno stile pop-soul alquanto sofisticato, improntato su un jazz di largo consumo, influenzato da esperienze techno pop di vario tipo. Genere comunemente noto come “sophisti-pop”. Un genere assai radiofonico, ma che non disdegnava passaggi in discoteca, per la gioia dei deejay dell’epoca.

Ultimi, ma non ultimi, i Wet Wet Wet, band scozzese nata nei primi anni ’80, ma che ha segnato con il proprio sound buona parte del decennio successivo. Un mix riuscitissimo di pop, rock e soul, caratterizzato dalla voce di Marti Pellow, che deve buona parte del successo al singolo “Love is all around”, soundtrack del mitico film “Quattro matrimoni e un funerale”.

Smooth operator(s)

Sempre a proposito di mode, non si può dimenticare Sade, band capitanata da Helen Sade Adu, nigeriana di nascita, ma londinese d’adozione. Resti tra di noi, il sogno erotico del mio regista radiofonico dell’epoca, my bro “Tony by night”.

La band è stata paladina e portavoce dello smooth jazz, contaminato da atmosfere tipicamente soul e rythm’n’blues. “Diamond life” del 1984, è stato uno degli album di debutto più venduti degli anni ’80, e anche l’album di debutto più venduto in assoluto da una vocalist donna britannica.

Chiudo con Chris Rea, figlio di padre italiano (di Frosinone) e di madre irlandese. Chitarrista e cantante dal gusto raffinato, un vero dandy delle sei corde, con alle spalle una lunga carriera a base di pop, rock e blues.

On the beach” del 1986, è decisamente in controtendenza rispetto al periodo, ma rappresenta un’ottima alternativa ai Dire Straits, come il seguente “Auberge” e soprattutto “The road to hell”, il capolavoro assoluto.

Il viaggio attraverso la new wave e il “non” soul, per il momento termina qui. Alla prossima puntata.

Lele Boccardo
Lele Boccardo
(a.k.a. Giovanni Delbosco) Direttore Responsabile. Critico musicale, opinionista sportivo, pioniere delle radio “libere” torinesi. Autore del romanzo “Un futuro da scrivere insieme” e del thriller “Il rullante insanguinato”. Dice di sè: “Il mio cuore batte a tempo di musica, ma non è un battito normale, è un battito animale. Stare seduto dietro una Ludwig, o in sella alla mia Harley Davidson, non fa differenza, l’importante è che ci sia del ritmo: una cassa, dei piatti, un rullante o un bicilindrico, per me sono la stessa cosa. Un martello pneumatico in quattro: i tempi di un motore che diventano un beat costante. Naturalmente a tinte granata”.