Antonio Ligabue, la fragile mente dell’outsider dell’arte

Outsider: chi opera in campo letterario, artistico e similari, al di fuori di ogni scuola o movimento. Questa la definizione che si trova nel vocabolario Treccani. E allora Antonio Ligabue ci rientra proprio, (è il caso di dirlo), a pennello. Già perché Ligabue è stato ed è tutt’ora l’outsider per eccellenza della pittura italiana. Uno che è vissuto ai margini della società e del mondo. Quel mondo che prima l’ha rifiutato e poi, come sovente accade, osannato. L’establishment dell’arte l’ha tolto dall’ angolo di strada in cui l’aveva condannato per farlo diventare figura di riferimento dell’arte

Ligabue è un randagio della cultura, un artista libero dentro che, alla vulnerabilità emotiva congenita, ha unito grandi tragedie personali vissute nell’infanzia e nell’adolescenza; la sua cosciente follia, la sua istintività primitiva, il suo lasciarsi trasportare da eccessi emotivi lo hanno reso unico nel panorama delle arti visive del secolo scorso”. Così scrive di lui Maurizio Vanni, critico d’arte.

Ligabue, talmente outsider da non rientrare in nessuna definizione.

Impossibile leggere tutto ciò che è stato scritto su di lui, la vastità della sua bibliografia supera perfino quella di Piero Manzoni e Lucio Fontana. Fiumi e fiumi d’inchiostro per cercare una definizione, un aggettivo, una corrente che gli appartenesse. Così è spuntato il Ligabue naïf, l’espressionista, il riferimento dell’Art Brut, il mitologico neorealista, il manierista decorativo. Acrobazie e iperboli su aggettivi più o meno calzanti. In realtà Antonio Ligabue aveva solo bisogno del suo mondo, delle persone, o meglio degli animali, di cui era in grado di percepire, come molto vicino a sé, il linguaggio. Per tanto tempo è stato associato al mito del “buon selvaggio”, in realtà Ligabue risulta una persona con “ritardo mentale, insufficienza mentale e con disturbi del carattere. Instabilità, atti aggressivi, sovraeccitazione nervosa, depressione semplice, psicosi maniaco-depressiva”.

Queste le diagnosi, rese pubbliche nel 2018, a settant’anni dalla sua scomparsa, che emergono dai suoi tre ricoveri al manicomio San Lazzaro di Reggio Emilia, rispettivamente nel 1937, 1940 e 1945. Nel frontespizio della cartella clinica del 1937 si trova scritto: Ligabue Antonio, professione nessuna, condizione nullatenente. In quella del 1945 si noterà una piccola evoluzione, forse frutto della società che stava iniziando a occuparsi di lui: professione pittore, condizione povera. La prima diagnosi è di “sindrome depressiva”, segue poi quella di “psicosi maniaco-depressiva”, quello che oggi viene chiamato il disturbo bipolare.

dipinto di ligabue tigre che lotta con un serpente avvolto intorno al collo
la tigre e il seprente

Una pittura selvaggia e indefinibile, frutto del legame con la natura

Fondamentalmente Ligabue è uno “ai margini”. Immerso in un suo immaginario sofferente, un mondo esterno che lui trasfigura in un suo linguaggio simbolico. Ci lascia, oltre alla storia della sua vita costellata di rifiuti familiari, di drammatiche perdite subite in età adolescenziale ( mamma e tre fratellini morti per intossicazione), di ricoveri per condotte cattive e scostumate prima (1913) e per autolesionismo e psicosi poi ( dal 1919 in avanti),una pittura selvaggia e spregiudicata. Figlio di una natura che l’aveva dotato della capacità di percepirne l’urlo antico e atavico. Amante degli animali che rappresentava in tutta la violenza di una fiera cha dilania una gazzella, o nelle emulazioni dei gesti di teneri coniglietti. Qualche critico ha letto nell’autolesionismo attuato con una pietra per massacrarsi naso, un gesto di emulazione appunto. Una chiave per essere simile alle bestie che lui amava molto.

Gli animali, infatti, sono protagonisti quasi totalizzanti delle sue tele. Animali sia selvaggi che domestici, colti e ritratti in atti semplici e in atti di morte terribile. La cruda realtà di morte che solo la natura sa dare nella sua semplicità estrema di legge di sopravvivenza. C’è una descrizione di Marco Dall’Acqua di Ligabue mentre dipinge gli animali. Li ritraeva “adattando il proprio corpo, altrimenti goffo e deforme, a riprodurre movenze, atteggiamenti tipici, sbattere di ali, digrignare di fauci, scatti di zampe ad aggredire, a difendersi, mentre ruggiva, ululava, mugghiava, pigolava . Faceva mille altri versi ripetuti ossessivamente. Interrotti solo dal comprimersi le orecchie per modulare a labbra chiuse una nenia, tra il lameto , la ninna-nanna e un arcaico ricordo di flauto, nasale e lamentoso, misterioso richiamo per scatenare forze occulte“.

Gli animali e gli autoritratti

I mondi dipinti da Ligabue sono legati indissolubilmente al suo essere outsider. Sono mondi in cui ci sono trionfi di simboli di dolore e di sofferenza, suoi compagni più cari fin dalla nascita. E sono mondi, molti, che lui non ha mai visto. Luoghi, belve e fiere presi da qualche fotografia trovata qua e là in qualche giornale dell’epoca. No, Antonio Ligabue non ha mai visto nè un leone, nè un leopardo, nè, tantomeno, una vedova nera. Eppure li dipinge, quasi come a inserirli in una giungla padana in cui riconosciamo nelle urla anche le nostre voci.

autoritratto con farfalla collezione privata

Un discorso a parte meritano gli insetti, Dipinti a profusione con una presenza ricorrente e decisamente importante, specialmente negli autoritratti. Un altro tratto distintivo: una farfalla svolazzante. Bianca. Un giorno qualcuno gli chiese per quale motivo sentisse il bisogno di aggiungere una farfalla alle sue opere nonostante sembrassero complete. La sua risposta fu immediata: “Questo è il premio che mi do quando un quadro mi soddisfa più di un altro“. La presenza o l’assenza della farfalla è un indizio decisivo, un criterio implacabile. Solo cinque autoritratti di Ligabue , su 123 dipinti, si sono meritati la farfalla. La farfalla di Ligabue, dichiara Pascal Bonafoux in Brevi riflessioni sugli autoritratti di Ligabue, riveste lo stesso ruolo che aveva la firma per Vincent van Gogh. Il pittore olandese confidava al fratello Theo di firmare solo le tele di cui era soddisfatto, e questo accadeva una volta su dieci

Volevo nascondermi

C’e un film, del 2020, per la regia di Giorgio Diritti che riesce a riassumere in un titolo la somma della vita di Antonio Ligabue: Volevo nascondermi. Film che si presenta al Festival di Berlino dell’anno stesso e ottiene L’orso d’argento per il miglior attore a Elio Germano. Nel 2021 arriva ai David di Donatello on ben quindici nomination. Si aggiudica sette statuette Miglior film, Miglior regia, Miglior attore protagonista, Miglior autore della fotografia, Miglior scenografo, Miglior acconciatore e Miglior suono.

scena tratta dal film volevo nascondermi

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Monica Col
Monica Col
Vicedirettore di Zetatielle Magazine e responsabile della sezione Arte. Un lungo passato come cronista de “Il Corriere Rivoli15" e “Luna Nuova”. Ha collaborato alla redazione del “Giornale indipendente di Pianezza", e di vari altri giornali comunali. Premiata in vari concorsi letterari come Piazza Alfieri ( 2018) e Historica ( salone del libro 2019). Cura l’ufficio stampa di Parco Commerciale Dora per la rassegna estiva .Cura dal due anni la promozione della Fondazione Carlo Bossone,. Ha curato per quattro anni l'ufficio stampa del progetto contro la violenza di genere promosso da "Rossoindelebile", e della galleria d’arte “Ambulatorio dell’Arte “. Ha curato l'ufficio stampa e comunicazione del Movimento artistico spontaneo GoArtFactory per tre anni. Ha collaborato come ufficio stampa in determinati eventi del Rotary distretto 2031. Ė Presidente dell 'Associazione di promozione sociale e culturale "Le tre Dimensioni ", che promuove l' arte , la cultura e l'informazione e formazione artistica in collaborazione con le associazioni e istituzioni del territorio. Segue la comunicazione per varie aziende Piemontesi. Dice di sé: “L’arte dello scrivere consiste nel far dimenticare al lettore che ci stiamo servendo di parole. È questo secondo me il significato vero della scrittura. Non parole, ma emozioni. Quando riesci ad arrivare al cuore dei lettori, quando scrivi degli altri ma racconti te stesso, quando racconti il mondo, quando racconti l’uomo. Quando la scrittura non è infilare una parola dietro l’altra in modo armonico, ma creare un’armonia di voci, di sensazioni, di corse attraverso i sentimenti più intensi, attraverso anche la realtà più cruda. Questo per me è il vero significato dello scrivere".