Finanziamenti pubblici ai combustibili fossili: quanto ne sai?

La crisi climatica è strettamente legata ai finanziamenti pubblici che sostengono l’industria dei combustibili fossili. A creare l’innalzamento delle temperature del pianeta non sono certo i condizionatori accesi in estate con El Niño fuori casa, ma il continuo approvvigionamento da parte delle big industries a fonti non rinnovabili, approvvigionamento che resta immutato fino a quando riceveranno il sostegno economico delle banche e delle società di finanziamenti.

Ma andiamo per gradi.

keep 1.5°C alive

Nel 2021, a Glasgow, i Paesi della COP26 issarono la bandiera dell’ecologia al grido di “keep 1.5°C alive“, mantenere il mondo sotto gli 1,5 gradi centigradi di aumento della temperatura rispetto all’epoca pre-industriale. Durante il il summit sul climate change l’impegno preso era quello di non finanziare più con soldi pubblici progetti esteri legati ai combustibili fossili.

Un impegno che, a due anni di distanza, non è stato mantenuto da quasi tutti i Paesi presenti al summit, compresa l’Italia. Solo sette di loro (Regno Unito, Francia, Canada, Finlandia, Svezia, Danimarca, Nuova Zelanda e Banca Europea degli Investimenti), hanno attivato e mantenuto una politica di tagli ai finanziamenti pubblici ai combustibili fossili.

Belgio, Olanda, Spagna e Svizzera hanno effettivamente adottato dei regolamenti che limitano l’accesso a finanziamenti al settore ma, di fatto, tali regolamenti si prestano a scappatoie e comunque non permetteranno di essere in linea con i tempi stabiliti dal summit.

C’è, poi, chi , invcece, non ha neanche iniziato una politica di tagli ai finanziamenti pubblici al settore dei combustibili fossili. Tra questi spiccano Stati Uniti, Germania e la nostra Italia, che aderì all’iniziativa solo all’ultimo minuto.

E se parliamo di finanziamenti pubblici ai combustibili fossili, dobbiamo forzatamente parlare di SACE.

combustibili fossili - delle ciminiere che sputano fumo
Finanziamenti pubblici ai combustibili fossili: quanto ne sai?

Cos’è SACE?

Il gruppo SACE è di fatto, di proprietà del MEF, (Ministero dell’Economia e delle Finanze), poichè quest’ultimo ha il controllo del 100% delle sue azioni. In buona sostanza, SACE è la sua agenzia di credito all’esportazione. Il 17 marzo del 2022, il Ministero dell’Economia e delle Finanze comunica il riassetto del Gruppo SACE, ai sensi dell’articolo 67 del decreto-legge 14 agosto 2020, n. 104, convertito con modificazioni dalla legge 13 ottobre 2020, n. 126, e in seguito all’accordo raggiunto tra il MEF, la Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. (CDP) e SACE S.p.A. (SACE), con il decreto firmato dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, Daniele Franco, di concerto con il Ministro degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Luigi Di Maio (Decreto SACE).

In particolare, l’operazione prevede, in sequenza, il trasferimento da parte di SACE a CDP della partecipazione detenuta in Simest S.p.A. (Simest), pari al 76,005 per cento del capitale sociale, con pagamento per cassa, e il trasferimento da parte di CDP al MEF della partecipazione detenuta in SACE, pari al 100 per cento del capitale sociale, con pagamento in titoli di Stato appositamente emessi. I trasferimenti avvengono ai prezzi ritenuti congrui e concordati dalle parti come riportati nell’art.1 del decreto.

Il Sistema Italia

SACE si colloca al sesto posto globale e al primo in Europa tra i finanziatori pubblici dell’industria fossile. Tra il 2016 e il 2021, SACE ha emesso garanzie (assicurazioni sui progetti o garanzie sui prestiti per la realizzazione dei progetti) per i settori del petrolio e del gas pari a 13,7 miliardi di euro, che rappresentano una fetta importante dei cosiddetti ‘sussidi ambientalmente dannosi’ italiani“, scrive ReCommon, associazione che lotta contro gli abusi di potere e il saccheggio dei territori per creare spazi di trasformazione nella società, in Italia, in Europa e nel mondo.

I timori nati nel 2021, che l’iniziativa di Glasgow fosse lontana dall’essere perfetta, si sono confermati nel tempo. ReCommon, all’epoca, aveva già sollevato il dubbio che una “serie di scappatoie” fossero da monitorare e per le quali sarebbe stata necessaria una forte pressione internazionale per chiuderle, avendo anche ripercussioni sull’agenda politica italiana e sul Sistema-Italia, che si basa su finanza privata-industria fossile-finanza pubblica.

In più, ReCommon sollevava la questione temporale, e cioè che nell’arco di un anno, miliardi di dollari potessero ancora passare dalle casse pubbliche alle tasche dell’industria fossile, sotto forma di prestiti o di garanzie (per leggere tutto il testo, clicca qui).

L’Italia, di fatto, assume l’impegno solo nel 2023, per la precisione nel mese di gennaio. La notizia arriva dal profilo Linkedin della coalizione internazionale Export Finance for Future e non attraverso i canali ufficiali di SACE o del MEF.

Policy, terminologia e sicurezza energetica

Ciò che sorprende è che la definizione di gas fossile. Innanzitutto è definito combustibile di transizione, strategico per la sicurezza energetica italiana. In seconda battuta, i progetti per esplorazione e produzione di gas potranno essere finanziati fino a gennaio 2026, e le deroghe presenti potrebbero posticipare la data ultima ancora più avanti. Per i progetti di trasporto e stoccaggio, invece, la data ultima non è proprio menzionata perché deve essere “ancora definita”. Una formula che sembra voler dire “per sempre”.

Per rendersi conto di quanto il mantra della sicurezza energetica sia vuoto, si può riportare un esempio: con questa policy, alcuni progetti potrebbero richiedere il supporto finanziario di SACE addirittura nel 2025. Le multinazionali proponenti, con il supporto di quelle costruttrici, potrebbero ultimarli nel 2030 e il gas prodotto arrivare in Italia dal 2031. Risulta difficile credere che otto anni sia un lasso di tempo emergenziale tanto da invocare la “sicurezza energetica”. Senza contare che solo una minima parte del gas prodotto arriverà in Italia, come dimostrato dal progetto Coral South FLNG di Eni: supportato finanziariamente da SACE, la prima nave gasiera proveniente dal progetto mozambicano è finita a Bilbao e non certo in Italia.

qualità dell'aria - nella foto delle ciminiere diun acentale elettrica, una pala eolica e tanto fumo nel cielo
Finanziamenti pubblici ai combustibili fossili: quanto ne sai?

Le dichiarazioni di RECommon

“Sembra evidente che, dietro il mantra della sicurezza energetica, gli interessi tutelati siano quelli delle multinazionali energetiche, degli istituti di credito e delle agenzie di credito all’esportazione come SACE“, afferma Simone Ogno di ReCommon.

Se non bastasse la posizione sul gas, troviamo anche il beneplacito a tecnologie sperimentali e già fallimentari come la cattura e lo stoccaggio del carbonio, per non parlare anche delle deroghe previste per le date ultime di finanziamento a progetti petroliferi”, aggiunge Ogno. “Ci aspettavamo una politica di implementazione scadente, ma così è come non averla del tutto”, conclude.

Causa civile contro ENI

Greenpeace Italia, ReCommon e dodici tra cittadine e cittadini italiani hanno notificato a ENI S.p.A. un atto di citazione per l’apertura di una causa civile nei confronti della società, del Ministero dell’Economia e delle Finanze e di Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. (queste ultime due realtà in qualità di azionisti che esercitano un’influenza dominante sulla società).

La causa civile ha per oggetto i danni subiti e futuri, in sede patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici a cui ENI ha significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendone consapevole.

E’ la prima climate litigation in Italia.

Cosa sono le climate litigation?

Sono azioni legali avviate con lo scopo di imporre a governi o aziende il rispetto di determinati standard in materia di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra e di limitazione del riscaldamento globale. A livello globale, il numero complessivo di azioni legali sul clima è più che raddoppiato dal 2015, portando il totale a oltre duemila, con un progressivo
moltiplicarsi di cause presentate da cittadine e cittadini e/o da organizzazioni non governative che chiedono che vengano rispettati e messi in primo piano i diritti delle persone colpite dalla crisi climatica.

Nel caso specifico di questa azione di causa civile contro ENI gli attori sono Greenpeace Italia e ReCommon insieme a privati cittadini e cittadine, tutti soggetti che direttamente o indirettamente subiscono le conseguenze dell’aggravarsi della crisi climatica a causa anche della condotta della multinazionale petrolifera italiana.

Le persone, in modo diffuso su tutto il pianeta, stanno già subendo e ancor più subiranno in futuro conseguenze della crisi climatica, sintetizzabili in un peggioramento della qualità della vita, fino alla difficoltà, se non all’impossibilità, di vivere nei propri luoghi di residenza. Vi sarà il proliferare di tutta una serie ulteriore di danni che gli eventi connessi al cambiamento climatico provocheranno.

La responsabilità di ENI su tali cambiamenti emerge con tutta evidenza dai risultati della cosiddetta attribution science, cioè quella scienza che consente di ricondurre a un preciso
soggetto un quantitativo determinato di emissioni non conformi con quelli che sono i valori fissati a livello internazionale. In particolare è possibile evincere il quantitativo di emissioni di ENI, accertando che questa è responsabile a livello globale di un volume di emissioni di gas serra superiore a quello dell’intera Italia, essendo così uno dei principali artefici del
cambiamento climatico in atto.

Non solo ENI

La causa civile oggetto di questo briefing viene rivolta anche nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e di Cassa Depositi e Prestiti, tenuto conto dell’influenza dominante che esercitano su ENI dalla fondazione ad oggi, per cui sono corresponsabili per le scelte aziendali compiute in tema di strategie energetico-climatiche e delle conseguenti emissioni di CO2 e di altri gas climalteranti.

Greenpeace Italia, ReCommon e cittadine e cittadini ricorrenti non chiedono il risarcimento del danno ambientale in quanto tale – non competenza dei suddetti enti, ma del ministero
dell’Ambiente – bensì, essendo danneggiati dalle condotte lesive di ENI per quanto riguarda la loro salute, nei beni di loro proprietà e nella loro sfera funzionale, sono legittimati direttamente ad agire in giudizio nei confronti dei soggetti responsabili ai fini del ristoro dei danni.
In base ai rispettivi statuti, Greenpeace Italia e ReCommon vantano pieno diritto e legittimazione ad agire per contrastare le lesioni e i danni all’ambiente causati da ENI, nonché
al risarcimento delle spese sostenute negli anni per studiare, denunciare e contrastare le condotte illecite della società petrolifera.

Le persone fisiche ricorrenti sono invece tutte residenti e, in alcuni casi, anche proprietarie di immobili in aree del Paese particolarmente esposte agli effetti dei cambiamenti climatici.

finanziamenti pubblici a combustibili fossili - nella foto una fabbrica di energia elettrica con ciminiere altissime che sputano fumo
Finanziamenti pubblici ai combustibili fossili: quanto ne sai?

Eni violerebbe il diritto alla vita e alla salute

Le due organizzazioni e le cittadine e i cittadini coinvolti nella causa – provenienti da aree già colpite dagli impatti dei cambiamenti climatici, come l’erosione costiera dovuta all’innalzamento del livello del mare, la siccità, la fusione dei ghiacciai – chiederanno al Tribunale di Roma l’accertamento del danno e della violazione dei loro diritti umani alla vita, alla salute e a una vita familiare indisturbata.

Gli attori che hanno intentato la causa chiedono inoltre che ENI sia obbligata a rivedere la propria strategia industriale per ridurre le emissioni derivanti dalle sue attività di almeno il 45% entro il 2030 rispetto ai livelli del 2020, come indicato dalla comunità scientifica internazionale per mantenere l’aumento medio della temperatura globale entro 1,5 gradi Centigradi secondo il dettato dell’Accordo di Parigi sul clima. Al Ministero dell’Economia e delle Finanze, azionista influente di ENI, si chiede di adottare una politica climatica che guidi la sua partecipazione nella società in linea con l’Accordo di Parigi. 

Le due associazioni e gli attori coinvolti valutano che l’attuale strategia di decarbonizzazione di ENI sia palesemente in violazione degli impegni presi in sede internazionale dal governo italiano e dalla stessa società. Ritengono inoltre inaccettabile che, a fronte di extra profitti record realizzati nel 2022, ENI continui a investire nell’espansione del suo business fossile, a danno del clima e delle comunità locali che in tutto il mondo subiscono gli impatti del riscaldamento globale. La conferma di Claudio Descalzi al vertice della società da parte del Ministero dell’Economia e delle Finanze, avallata dall’intero governo, rende inoltre quest’ultimo complice di scelte che aggravano la crisi climatica. 

Faccio causa a ENI perchè…

«Faccio causa a ENI e alle realtà statali che la controllano perché le loro strategie non rispettano gli accordi di Parigi in termini di emissioni di CO2», dichiara Vanni, uno dei cittadini che ha fatto partire la causa civile nei confronti di ENI insieme a Greenpeace Italia e ReCommon.

«L’operato di ENI contribuisce ad aggravare notevolmente la crisi climatica, con conseguenze sempre peggiori per me e per il mio territorio, il Polesine. Nei pressi del Delta del Po, il mare avanzerà sempre di più nelle nostre terre, e con la risalita del cuneo salino rischiamo di trovarci a vivere in un vero e proprio deserto o di essere costretti abbandonare la nostra casa e la nostra terra».
«La Regione in cui vivo, il Piemonte, subisce già oggi gli effetti di una drammatica siccità, come dimostra il bassissimo livello delle precipitazioni registrato quest’inverno», racconta invece Rachele. «Un problema che probabilmente si aggraverà in futuro. Ecco perché ho deciso di partecipare a questa azione legale in qualità di parte lesa. Non ritengo giusto che il principale fornitore di energia italiano, di cui lo Stato tra l’altro è il maggiore azionista, possa portare avanti anno dopo anno un programma di investimenti che va contro gli obiettivi fissati dall’ultimo rapporto dell’IPCC, massima autorità scientifica globale in fatto di cambiamenti climatici».

#lagiustacausa

#LaGiustaCausa – questo il nome della campagna che promuove l’iniziativa legale contro ENI, la prima del suo genere contro una società di diritto privato in Italia – si inserisce nel novero delle cosiddette climate litigation, azioni di contenzioso climatico il cui numero complessivo, a livello globale, è più che raddoppiato dal 2015 a oggi, portando il totale di cause a oltre duemila.

Tra queste, spicca l’azione legale promossa da Friends of the Earth Netherlands (Milieudefensie), insieme a Greenpeace Netherlands, altre organizzazioni e 17.379 singoli co-ricorrenti, che nel maggio 2021 ha indotto un tribunale dei Paesi Bassi a stabilire che Shell è responsabile di aver danneggiato il clima del Pianeta, imponendo alla compagnia britannica di ridurre le proprie emissioni di carbonio. Per dovere di cronaca, segnaliamo che Shell ha appellato la sentenza.

causa civile #lagiustacausa
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Tina Rossi
Tina Rossi
(a.k.a. Fulvia Andreatta) Editrice. Una, nessuna e centomila, il suo motto è “è meglio fingersi acrobati, che sentirsi dei nani” Dice di sé:” Per attimi rimango sospeso nel vuoto,giuro qualche volta mi sento perduto, io mi fido solo del mio strano istinto, non mi ha mai tradito, non mi sento vinto, volo sul trapezio rischiando ogni giorno, eroe per un minuto e poi...bestia ritorno...poi ancora sul trapezio ad inventare un amore magari...è solo invenzione, per non lasciarsi morire...”